Le visionarie della scienza

di Liliana Moro e Sara Sesti


da sinistra: Monica Lanfranco, Agnese Seranis,
Margherita Hack, Sara Sesti, Liliana Moro
conferenza a Palazzo Ducale di Genova 2003

 

Il frontespizio di questo libro reca il sottotitolo: Narrazione. Una precisazione non superflua, dato che il testo si muove in equilibrio tra diversi piani: la riflessione sui principi della scienza, le osservazioni sociologiche sulla presenza femminile nella ricerca scientifica, la ricostruzione storica, il ricordo, la visione, il racconto. Attraversare i confini di tanti linguaggi è una scelta precisa e difficile per una scrittrice che intende affrontare temi impegnativi sul piano teorico e per una scienziata che intende proporre una lettura piacevole e coinvolgente: Agnese Seranis è entrambe queste cose.  Laureata in fisica, lavora da anni in un laboratorio di ricerca, attiva nel movimento delle donne dagli anni ‘70, ha collaborato a riviste e iniziative politiche e culturali, e non è alla sua prima prova come scrittrice di narrativa (Io, la strada e la luce di luna, 1988).  In questo suo ultimo libro riesce a vincere il pregiudizio per cui sarebbe impossibile affrontare questioni di rilevanza scientifica con un linguaggio allusivo e non rigoroso come è quello della narrazione. La scommessa è risultata vincente poiché la vicenda di Alice, la ricercatrice protagonista, di sua madre e di sua figlia ha uno spessore narrativo e pone questioni teoriche rilevanti.
La figura centrale ingaggia un dialogo serrato da un lato con le sue antenate: la madre, le sue amiche, la nonna, le donne del paese e d’altro canto con la generazione successiva: la figlia, le sue amiche, una giovane ricercatrice.  A sottolineare la continuità generazionale tutte e tre le donne si chiamano Alice. Se Alice-nonna abbandona gli studi per il matrimonio, Alice-madre riesce a comporre le esigenze familiari e la maternità con il lavoro di ricerca scientifica, ma senza poter diventare una scienziata importante, mentre Alice-figlia antepone la ricerca ai legami affettivi e rifiuta il ruolo di moglie e di madre.  Ma le cose non sono così semplici e non c’è un percorso evolutivo perché scelte e esperienze sono intrecciate e aperte. Nella sapienza costruttiva delle antenate c’è la precisione di un metodo rigoroso che allude alla procedura scientifica: nelle fasi della stiratura come in quelle della produzione collettiva delle conserve ogni gesto è ordinato in sequenze fisse e condensate da anni di sapere operativo.
Ancora: nel rifiuto dei tradizionali ruoli femminili da parte delle giovani e nella loro dedizione alla carriera si scopre alla fine una consapevolezza profonda del proprio corpo sessuato e delle sue valenze culturali. La bellezza è usata come veicolo di un punto di vista nuovo nel mondo degli scienziati: “La bellezza li costringe ad aver sempre presente che, anche loro, non sono solo testa, intelligenza, razionalità. Sono corpo... emozioni”.
Alice-madre abbandona il lavoro in laboratorio anche alla ricerca di una ricomposizione tra il sapere scientifico e la cultura depositata nella tradizione orale femminile, alla ricerca di risposte a domande teoriche che sembrano nascere dal suo corpo, questioni poste da esperienze mute che non vuole cancellare. E interroga la scienza attraverso straordinari dialoghi fantasmatici con i Grandi della Scienza.


La prima questione trattata è se si possa parlare di un genere della scienza, se esista un approccio diverso delle donne al sapere scientifico.  In un dialogo con la figlia, Alice-madre afferma: “Noi donne siamo come delle immigrate nei territori della scienza, veniamo dalle cucine, dalle camere da letto e siamo abituate a sognare ad occhi aperti. Quando cucino, pulisco la verdura ...cosa credi che faccia? Penso? Non proprio...vedo. Vedo delle immagini che si concatenano una all’altra...E mi dico che in noi donne, nel nostro DNA si è fissato una specie di talento visionario di cui ancora non siamo totalmente consapevoli e che non siamo capaci di sfruttare.”  A prima vista, il fatto di indicare in questo tipo di approccio il modo femminile di fare scienza, può apparire molto rischioso: si potrebbe arrivare ad affermare, come hanno fatto i movimenti femministi statunitensi o del mondo anglosassone, che la scienza è contraria alla natura delle donne, che urta la loro sensibilità e le ferisce, che le donne sono dalla parte della natura e che una cultura di dominio non è per loro.  Alice invece non si è fermata a queste asserzioni, pur condividendole in parte. E’ capace di esprimere il suo amore per la scienza: dapprima l’innamoramento legato all’eccitazione per le difficoltà del formalismo matematico e il senso di orgoglio per l’appartenenza ai pochi che ne hanno padronanza; il fascino per la generalizzazione dei concetti e per l’astrazione che implicano; la sensazione di operare in un universo di cristallo trasparente, in un mondo che regala la possibilità di liberarsi dalla carne, di trascenderla in un’esaltante spiritualizzazione e in cui il microcosmo e il macrocosmo possono riflettersi uno nell’altro attraverso metafore suggerite da simboli magici.
Alice associa a questo modo visionario di raggiungere la conoscenza il metodo di Einstein, quando affermava che le sue idee più originali gli erano scaturite da illuminazioni, da intuizioni improvvise non traducibili in passaggi logici. Allora Alice reclama una partecipazione più determinata delle donne alla ricerca scientifica, ponendo fortemente un’altra questione: perché nessuna scienziata è mai riuscita ad incidere sull’aspetto teorico delle discipline scientifiche, per esempio formulando leggi generali?  A questo proposito Alice chiama in causa due “grandi”: Marie Curie e Rosalind Franklin. Alla prima, scopritrice della radioattività e dell’instabilità dell’atomo e che per prima ha saputo misurare il radio definendolo come elemento chimico, rimprovera che proprio a causa del suo “vizio dell’esperimento” non è riuscita a dare il suo nome ad alcuna legge fisica, ma soltanto ad un’unità di misura. Le rinfaccia di aver passato troppo tempo in laboratorio a misurare e purificare, contaminandosi e facendo contaminare i suoi assistenti, a scapito di quelle attività di studio, di immaginazione e di riflessione che avevano invece portato Rutherford a formulare a tavolino la legge del decadimento radioattivo e a darle il proprio nome.  Rosalind Franklin, che ha trovato le prove sperimentali della struttura del DNA, viene accusata da Alice di “mancanza di coraggio” per non aver osato ipotizzarne il modello, realizzato invece da Crick e Watson in base ai dati delle fotografie sottratte, da quest’ultimo, proprio dal laboratorio di Rosalind. Alice è dura nei suoi rimproveri perché soffre per questi fallimenti come fossero propri. Marie Curie si difende affermando tra l’altro: “Io avevo bisogno di quel contatto fisico con la materia che studiavo. Ogni giorno avevo bisogno di percepire una specie di alleanza che si rinnovava, una relazione profonda tra me e la materia stessa...Solo così poteva giustificarsi la mia scelta di essere una scienziata.” Ad Alice che le chiede: “Perché non hai ipotizzato niente?.. Eri così vicina...”,  Rosalind Franklin risponde: “Avevo paura. Se avessi sbagliato mi sarei giocata per sempre la mia credibilità di scienziata.” Allora Alice avanza la domanda cruciale: “Ma quand’è che noi oseremo rischiare?”.
E si arriva alla terza questione: come possono le donne avere fiducia in sé stesse se non c’è traccia di un passato nella storia della scienza che le rassicuri sulle proprie potenzialità? Le scienziate sono state troppo poche per rappresentare una presenza rilevante e anche le “grandi” sono state troppo insicure.  Persino Barbara Mc Clintock, ritenuta da Alice la sola scienziata ad essersi concessa totalmente alla visionarietà della propria mente, diceva di sé di essere “un’eccentricità”... come se si considerasse un errore, una mostruosità della natura.  Del resto anche Marie Curie si compiaceva per aver dimostrato che una donna può avere gli stessi talenti di un uomo. Alice la incalza: “Veramente un bell’esempio di androginia: un corpo di donna con un cervello maschile. Il tuo corpo era femminile e davvero non ti sei sottratta alle sue funzioni: fare dei figli...Ma il tuo cervello...ah!, al tuo cervello non hai riconosciuto, non hai gridato che il suo genere era femminile... Ti compiacevi di quanto andava dicendo tuo suocero: Marie ha un’intelligenza affatto maschile, diceva. Perché non vogliono riconoscere l’intelligenza al genere femminile? Perché? Non te lo sei mai chiesta?”
Da ultimo, Alice si interroga sul ruolo delle donne nei confronti di una scienza i cui modi e la cui tensione verso la conoscenza sembrano non tenere conto dell’essere umano, ma portarlo verso una catastrofe inevitabile. Quando Alice entra nel “tempio” degli scienziati, dove colloquia alla pari con i grandi della scienza, sono due mondi - quello maschile e quello femminile - che si confrontano, che sembrano confliggere e non trovare un punto di saldatura. Sono due sensibilità diverse che sembrano scaturire da un diverso rapporto con la vita e che fanno dire alla protagonista: “Io non posso uccidere con la testa ciò a cui il mio utero ha dato la vita.” Nel passato la comunità scientifica maschile, chiusa e gelosa del proprio sapere ha escluso le donne; ora le ricercatrici che chiedono numerose di entrarvi, devono misurarsi con un linguaggio e con regole che sentono estranee ma che non sono ancora pronte a respingere per riproporne delle nuove. Alice-madre, pur nella profondità della sua crisi esistenziale, si interroga con serenità scientifica. E’ tuttavia la lettura del diario della figlia che dissolve il sentimento di solitudine da cui si era sentita pervasa: scopre che, seppur modulate diversamente, le sue inquietudini sono condivise dalle giovani scienziate. E’ certa, allora, che è iniziato un movimento verso un nuovo orizzonte; è certa che questo movimento sarà inarrestabile.

Agnese Seranis,
Il filo di un discorso,
Eura Press/Edizioni Italiane,
1998 , pagg.127
introvabile...

22, Novembre 2008